“L’opera di devastazione della biosfera, che Homo sapiens (il cancro
del pianeta) conduce da quando è uscito dallo stato di natura, trova nella
città il suo epicentro. Qui le cellule tumorali si aggregano e si organizzano
per andare all’assalto delle cellule sane, da qui ha preso avvio l’azione
metastatica che, secolo dopo secolo, ha avvolto l’intero pianeta in una
ragnatela mortale. È quindi importante approfondire il fenomeno dell’urbanizzazione
in tutti i suoi aspetti, verificando in particolare chi nel corso della storia vi
si è opposto e chi invece lo ha propiziato. A tale missione conoscitiva è
dedicato questo saggio di Bruno Sebastiani, ora rivisitato e ristampato a
cinquanta anni esatti dalla sua prima stesura. Il tempo trascorso non ha tolto alcunché
all’attualità del tema. Al contrario, oggi esso è più che mai grave a causa
delle mostruose megalopoli di decine e decine di milioni di abitanti che stanno
proliferando in tante parti del mondo.”
Questa è la “quarta di copertina” del mio nuovo libro, “Contro la città”, recentemente auto pubblicato con “Il Mio Libro.it”. Come specificato, si tratta della riedizione pressoché integrale del mio primo saggio sulla nocività dell’uomo per la Natura (scritto nel 1971).
All’epoca non avevo ancora maturato la teoria cancrista, ma avevo già
individuato nell’urbanesimo uno dei fattori di maggior rischio per la
salvaguardia della convivenza armonica tra le specie.
La città non rappresenta di per sé la causa dei mali che affliggono
oggi la biosfera, bensì è essa stessa un male causato dall’abnorme sviluppo del
nostro encefalo.
Ma, se è vero che questo abnorme sviluppo è il vero “peccato originale”
che ci ha consentito di sgominare ed emarginare ogni altra forma di vita sulla
Terra, un fattore sicuramente accrescitivo del nostro potere di annientamento è
stata la concentrazione di tanti esseri umani nello spazio ristretto delle
città.
È quindi importante approfondire il tema dell’urbanesimo, sia per
comprenderne la reale portata in termini di nocività sia per verificare chi nei
secoli l’abbia favorito e chi, invece, abbia tentato invano di contrastarlo.
Il mio studio si è concentrato su quest’ultima schiera di personaggi,
nella intima convinzione che il fenomeno in sé altro non sia che una evidente
manifestazione di quella patologia che ho bollato come il cancro del pianeta.
Come definire altrimenti una ridotta estensione di territorio in cui
uno spropositato numero di esseri si accalca per produrre rumore, inquinamento,
alienazione e per erodere risorse naturali?
In tali ammassi umani il rischio di diffusione di malattie è ben più elevato
di quanto accade in natura e gli effetti di eventi catastrofici (incendi,
terremoti, alluvioni, bombardamenti) sono infinitamente più gravi. Ma il vero
problema è il danno procurato all’ambiente dalla convivenza forzata di tanti “consumatori”.
L’espansione delle città rappresenta visivamente e plasticamente il
segno della neoplasia globale.
Si può ricavare un’immagine oggettiva di tale realtà dalla cosiddetta “prova
dell’aeroplano”. Nell’Appendice de “L’Impero
del Cancro del Pianeta”, scrissi: “[…] tutti coloro che avevano
accusato l’uomo di essere la cellula maligna della biosfera […] sono
rimasti fortemente impressionati dalla somiglianza delle città viste dal
finestrino di un aereo con le formazioni tumorali (nella fattispecie a livello
epidermico)” (p. 194) e riportai la citazione di un brano di Mumford in cui
il famoso urbanista e sociologo statunitense riferiva di come la vista delle
grandi città dall’aeroplano ricordi “[…] una massa informe e continua […]”
(Ibidem)
Ciò detto, occorre valutare anche l’altra faccia della medaglia.
Se tanta gente, infatti, abita nelle metropoli e tanta altra continua
ad affluirvi, ciò significa che le città esercitano nei confronti dei nostri
simili un irresistibile potere di attrazione. In parte questo si spiega con
motivi di natura economica (è più facile trovare lavoro), ma in gran parte, è
inutile negarlo, con una vera e propria “seduzione” della vita frenetica e ricca
di mille manifestazioni e occasioni di incontro tipica delle grandi città.
Ciò accade perché, come ho scritto nel cap. 5 de “Il
Cancro del Pianeta Consapevole”, viviamo in un periodo storico molto
particolare. Godiamo ancora, in tante parti del mondo, dei vantaggi che la superiorità
intellettuale ci ha procurati, e i pericoli che intravvediamo (e talvolta sperimentiamo),
non sono ancora così diffusi da farci ricredere sui benefici della modernità.
Il giudizio che ognuno di noi esprime nei confronti di scienza,
progresso e città dipende dalla sensibilità individuale e dalle singole
esperienze.
Verrà il momento in cui le esperienze negative supereranno quelle
positive, e allora tutti vorranno fuggire dalle città e dal progresso per
tornare a vivere come i loro trisavoli nella quiete della campagna.
Ma quel mondo idilliaco non ci sarà più. Anche il più recondito angolo
del pianeta sarà stato raggiunto dalla ragnatela mondiale delle reti
informatiche e dei sistemi centralizzati di distribuzione del cibo. Quando il sistema
si incepperà, sarà assai difficile alimentare uomini e macchine, e i nostri tris-nipoti
malediranno la nostra stoltezza.
In vista di questo scenario apocalittico, ho provato a indagare le
correnti di pensiero e gli uomini che, più o meno consapevolmente, hanno
condannato la nascita e la crescita delle città sin dal loro prima apparire.
Ho via via passato in rassegna l’antiurbanesimo dei pensatori tradizionalisti,
dei socialisti utopisti e degli anarchici, per esaminare poi quello dei teorici
delle città-giardino e delle anti-città.
La parte centrale di “Contro la città” è incentrata sul pensiero di tre
grandi sociologi, Ferdinand Tönnies,
Émile Durkheim e Georg Simmel, mentre la parte finale esamina l’antiurbanesimo
nella tradizione sociologica americana.
In un'unica opera ho
così analizzato i principali filoni di pensiero di coloro che hanno auspicato forme
di convivenza numericamente limitate, su base familiare o “comunitaria”, connotate
da forti vincoli solidaristici, in contrapposizione alla disordinata
aggregazione di esseri umani tra loro estranei propria delle città.
Non anticipo qui le conclusioni cui sono giunto al termine del mio
lavoro, per non togliere al lettore il piacere della scoperta. Dirò solo che lo
scopo di tutto lo studio era di capire a quale filone di pensiero appartenesse
l’antiurbanesimo, avuto presente che “Tutto il pensiero umano, in modo più o
meno consapevole, oscilla intorno a due concezioni: una, che definiremo
tradizionale, crede che all'alba della storia l'uomo sia vissuto più
intensamente; l'altra, che definiremo progressista, crede invece che la vera
felicità l'uomo debba ancora conoscerla, e che ciò non potrà avvenire che
attraverso la liberazione dai legami col passato” (p. 7).
Anche chi vive rubando di solito sogna di arrivare ad avere una bella casetta in cui vivere con tutto il necessario per condurre una vita agiata. Quindi significa che l'obiettivo finale non è quello di rubare in sé, ma è quello di rubare per raggiungere comunque un obiettivo. E credo che questo valga più o meno per tutti. Il modo più naturale per avere quello che serve per vivere comodamente è quello di lavorare, costruire ciò di cui si necessita. Ma lavorare è faticoso, difficoltoso. E allora ad un certo punto della storia umana, qualcuno che forse aveva il cervello che cominciava a svilupparsi troppo ha avuto l'idea di inventare il denaro: un metodo geniale che, se usato con intelligenza, può servire ad impossessarsi di qualsiasi bene anche senza dover lavorare. E attraverso il denaro e molte leggi fatte ad ok che ne regolano i flussi, gran parte dell'umanità riesce a vivere praticamente senza fare assolutamente nulla. E le città, le grandi metropoli, i grandi centri urbani devono, secondo me, essere considerati i cuori pulsanti e la conseguenza naturale di questo metodo scientifico di rubare. In questi centri una persona ha molte più probabilità di far soldi senza dover lavorare. Anche se sappiamo che loro comunque sono convinti di lavorare. Migliaia di persone che parlano, parlano, parlano, parlano e quando arriva la sera dicono: "oggi ho lavorato troppo, sono stanco". Sono questi i motivi secondo me che portano allo sviluppo di queste enormi concentrazioni di esseri umani. Un metodo che, come vediamo, non tiene però in nessuna considerazione l'importanza dell'organismo che ci dà la vita e che, prima o poi, non potrà più tenerci in vita.
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