(fonte: Volere la luna)
Francamente non ricordo se al referendum per l’uscita dal nucleare andai a votare l’8 oppure il 9 novembre 1987. So di sicuro che votai SÌ, ma anche che non ero molto convinto. Nel senso che sì il nucleare era potenzialmente pericoloso, che sì necessitava di un governo forte, che sì c’era il problema dello smaltimento delle scorie, ma: 1) sarebbe stato logico, secondo me, attuare, a monte, una politica meno energivora, ripensando il nostro stile di vita ed eliminando gli sprechi; 2) sapevo che le cosiddette energie alternative erano nell’immediato forse più dannose per l’ambiente dell’energia nucleare.
Io
allora, oltre che ambientalista nel tempo libero, lavoravo all’interno
dell’ENEL, ancora ente pubblico, e qualcosa di questa materia ne masticavo
pure. Sappiamo tutti come andò a finire: vinsero i SÌ all’uscita dal nucleare,
e ancora oggi c’è chi afferma quasi con sollievo «eh, se non ci fosse stato
Chernobyl, non avremmo vinto». In effetti quella viene letta come una delle
poche battaglie vinte dai paladini dell’ambiente.
Io,
che non ero già convinto allora, adesso, a distanza di più di trent’anni, continuo
a non ritenerla una vittoria.
Il
nucleare allora era un monopolio statale, uno dei pochi rimasti. Fino a poco
tempo prima lo Stato aveva distribuito la benzina, prodotto l’acciaio, venduto
i panettoni e quant’altro. Poi a poco a poco aveva dovuto rinunciare ai suoi
business (chiamiamolo pure capitalismo di Stato). Però l’energia elettrica e in
particolare il nucleare erano ancora terreni su cui esso pascolava in
solitudine. Il neoliberismo peraltro spingeva in altra direzione, e cioè quella
dell’imprenditoria privata anche nel campo dei servizi essenziali. Tutti
dovevano potersi arricchire: lo voleva l’Europa.
Le energie alternative io allora sapevo bene cosa erano, per lo
meno il grande, l’idroelettrico, con i paesi sommersi a favorire gli invasi
(Pontechianale, Ceresole Reale, Valgrisenche, Vagli Sotto etc.). Non potevo
immaginare cosa producessero le altre. Ben presto lo imparai: pannelli solari
(il famoso Sole che Ride, ma cosa aveva poi da ridere?) su terreni agricoli;
parchi (?) eolici a devastare i crinali dei monti, specie nell’Appennino; e
l’immarcescibile idroelettrico, ma non più quello grande, bensì quello
“piccolo”, laddove piccolo è tutt’altro che bello.
Beninteso,
le energie alternative si sarebbero imposte comunque, anche se i SÌ non avessero
vinto. Quella era la strada del neocapitalismo rampante, ma chissà, forse – e
qui dico una sorta di bestemmia – se avessimo mantenuto le centrali ancora in
funzione e quelle che dovevano essere realizzate (e che sono state realizzate
comunque anche se per altro combustibile), i tempi si sarebbero allungati e non
sarebbe stato oggettivamente giustificato tutto questo fabbisogno di energia.
Ricordo
che allora in Italia c’erano: Trino Vercellese (270 megawatt di potenza),
Caorso (869 megawatt), Latina (210 megawatt) e Garigliano (160 megawatt).
Doveva realizzarsi Montalto di Castro e una nuova centrale a Trino (Dove sono i siti
nucleari in Italia). Oggi in Italia si contano più di 3900 impianti
idroelettrici, di cui 2743 centraline inferiori al megawatt di potenza. Laddove
le piccole centraline sono come i porticcioli turistici sul mare: al di là del
nome grazioso, sono un disastro ecologico. Captano quasi tutta l’acqua del
torrente, determinandone di fatto la morte biologica (anche perché nessuno
controlla i rilasci), in più si realizzano strade di accesso e due costruzioni:
una per captare, un’altra per produrre. 2743 centraline, ovvero 2743 ambienti
alterati.
Non
ricordo se andai a votare l’8 oppure il 9 novembre 1987. Ma so dove sono andato
il 12 gennaio 2019, e questo giorno non me lo scorderò. Mi sono recato nel
Vallone del Rio Galambra, in comune di Exilles, in Alta Val Susa. E mi sono
ritrovato di fronte a una centralina idroelettrica nuova di pacca con relativo
dissesto territoriale e ambientale. Allego le foto perché molti di coloro che
dicono di essere favorevoli alle energie alternative non sanno che cosa
esattamente queste significhino. Se ne stanno in panciolle e pontificano: «Da
qualcosa bisogna pur trarre l’energia elettrica: non si può dire NO a tutto».
Io
nel Vallone del Rio Galambra non ci andrò più, così come non vado più in enne
luoghi delle Alpi stravolti da centraline, rifugi, impianti di risalita o piste
agrosilvopastorali. E ricordo ad
abundantiam che l’apporto del piccolo idroelettrico sul totale
della produzione idroelettrica italiana è pari al 6 per cento. Ma i danni,
quelli, non si calcolano. Per cosa poi? Per favorire l’imprenditoria privata.
Quando iniziò l’epoca maledetta del piccolo idroelettrico si calcolava che il
privato in appena tre anni rientrasse delle spese sostenute: e poi era tutto
grasso che colava, con i prezzi di vendita dell’energia gonfiati appositamente
per favorire questa produzione.
Concludo:
chi mi conosce sa che sono un fautore della decrescita e che abbraccio la
filosofia del postumano. Come tale, aborro lo sviluppo. Vorrei solo che tutti,
ma soprattutto gli ambientalisti (dei quali non faccio parte) riflettessero un
po’ di più sulla storia economico-sociale del Paese e capissero che una delle
poche battaglie che ritengono di avere vinto (quella sull’energia) per
l’ambiente non è stata una vittoria.
Il 1987 rimanda a un’altra data: il 279 a.C., quando Pirro, re dell’Epiro, vinse contro i Romani.
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