La frase di
Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo” (L’Idiota, parte III,
capitolo V) è stata interpretata in un’infinità di modi e ha fornito spunto per
un gran numero di dibattiti.
Diego Fusaro, nel
corso di una conferenza tenutasi a San Pellegrino Terme nel 2015 (ora presente su Youtube), ha dissertato egregiamente su questa
pluralità di impieghi che ne è stata fatta.
Io qui vorrei fornire la mia interpretazione personale, non necessariamente coincidente con quella del grande romanziere russo, sempre che Dostoevskij ne abbia avuta una e non abbia posto la locuzione in bocca ai suoi personaggi unicamente come “frase a effetto” (nel corso della narrazione l’argomento non viene approfondito).
In un post su
Facebook ho scritto: “È tempo di utilizzare l’arte per divulgare la
consapevolezza della nocività del genere umano per la Terra. Le idee faticano a
farsi strada, e allora proviamo a dipingere, cantare, fotografare, declamare,
scolpire, rappresentare in ogni modo questa nostra negatività per il pianeta,
ciascuno con le proprie abilità.”
Ecco questa per me è
la “bellezza” che può, anzi deve, tentare di frenare la nostra folle corsa
verso il baratro. Chiamiamola “bellezza”, “estetica” o “arte”, qualunque sia il
suo nome fa riferimento a categorie del pensiero distinte e distanti da “ragione”,
“logica” e “scienza”. E se queste ultime sono indubitabilmente le responsabili
dell’estremo degrado ambientale in cui ci troviamo, perché non utilizzare nella
nostra azione di contrasto le facoltà della mente non coinvolte nell’attuale ecocidio,
quelle che nel corso della storia hanno invano tentato di arginare la crescente
marea scientista?
Queste facoltà si
esprimono con il linguaggio dell’arte: pittori e scultori hanno sempre tratto
ispirazione dal mondo della natura, poeti e musicisti si sono sempre rivolti a
quella “categoria dello spirito” che si chiama “sentimento”.
Nella mia raffigurazione
della mente umana il sentimento non è altro che l’istinto sublimato dalla
ragione, laddove per istinto intendo tutto ciò che ci deriva direttamente dalla
natura, senza alcuna intermediazione di tipo “culturale” o “razionale”.
La ragione, sempre
secondo la teoria che sostengo, è invece quel “surplus” di intelletto procuratoci
da occasionali alterazioni geniche verificatesi nel corso dell’evoluzione, “surplus”
da noi utilizzato per dar vita al mondo “artificiale” giustapposto a
quello “naturale” (come la neocorteccia è sovrapposta al cervello limbico
e a quello rettiliano…).
Se la ragione ha
causato i guai che ben conosciamo, dalla sovrappopolazione all’esaurimento
delle risorse (ecc. ecc.), è purtuttavia vero che solo la ragione può tentare
di porre rimedio a tali guai, essendoci preclusa la via del ritorno allo stato
di natura dalle troppe modifiche intervenute nel tempo ai danni del nostro
organismo e dei nostri assetti sociali.
Ma ogni tentativo di riparazione
prima di essere intrapreso deve essere desiderato.
Ed ecco il ruolo dell’arte:
rappresentare la bellezza del mondo della natura e la mostruosità del mondo
artificiale al punto da eccitare i sentimenti umani verso il desiderio della
riparazione.
L’atto estetico va
poi razionalizzato e tradotto in pratica riparatoria. Ma, senza la scintilla
per l’innesco del processo “revisionista”, nulla di veramente decisivo può prendere
avvio.
Qualcuno osserverà
che molti uomini di buona volontà e tanti potenti del mondo hanno già preso
coscienza della necessità di modificare i nostri comportamenti nei confronti
dell’ambiente, come dimostrano numerose iniziative individuali e svariati accordi
internazionali.
C’è il dubbio che
tali prese di coscienza nascondano talvolta altrettante operazioni di facciata,
destinate a consentire la prosecuzione dell’attuale modus vivendi a cuor
leggero, con la coscienza risciacquata nella tinozza della green economy.
Ma pur senza voler
pensare male e dando credito alla buona volontà dei singoli e delle istituzioni,
appare evidente come le iniziative sin qui intraprese siano del tutto
insufficienti a riparare i danni causati all’ambiente. La prova più macroscopica
è fornita dalle difficoltà incontrate a raggiungere gli obiettivi fissati dall’Accordo
di Parigi del 2015, a proposito del quale è interessante notare come il maggior
contributo alla riduzione delle emissioni dei gas serra è stato fornito non
tanto dalle iniziative degli Stati firmatari quanto dallo stop alle attività
produttive imposto dalla dilagante pandemia.
Comunque sia, lo
stimolo che le opere d’arte possono offrire alle moltitudini e alle classi
dirigenti è sempre della massima importanza, anche laddove la spinta al
cambiamento appaia sinceramente avviata: essa infatti va convintamente
sostenuta contro i rigurgiti egoistici di specie che non mancano mai di
manifestarsi.
Al fine di dare il
buon esempio, come promotore della teoria cancrista ho rivolto un appello agli
amici artisti che condividono con me la convinzione della nostra nocività per
la biosfera e ho creato un’apposita pagina del mio sito con alcuni contributi illustrativi al riguardo. Un
primo manipolo di pittori, poeti e musicisti ha già risposto all’appello, e
precisamente:
-
Mario
Giammarinaro, pittore (con le sue maree nere ha denunciato i danni dell’inquinamento)
-
Massimo
D’Arcangelo, ecopoeta (“Il cancro del Pianeta siamo noi / ma il messaggio è omesso / vietato, nascosto alle masse”)
-
Maicol
MP, musicista (L’uomo come cancro del Mondo)
-
Andrea
Rayquaza Di Sanzo, cantautore rap (Autodistruzione)
-
Marco
Sclarandis, scrittore e poeta (Mai ci parlerà l’aragosta)
-
Mario
Famularo, poeta (“quest’uomo senza pace / è il cancro della terra”)
-
Cristina
De Biasio, pittrice (tra le sue opere: Nuovo mondo, dopo l’estinzione umana)
-
Gabriele
Buratti (Buga), pittore, fotografo e scultore (“Dal linguaggio rupestre a quello freddo e inumano
dei codici a barre, la semiologia ha fatto un salto che allontana sempre più
l'uomo dal mistero del sacro impadronendosi del nostro immaginario collettivo
attraverso il mondo dell'economia.”)
Sono consapevole che
i pochi nomi citati siano quantitativamente un’inezia rispetto al gran numero
di artisti che stanno tentando di raffigurare i danni da noi procurati alla
natura.
Ma l’elemento che mi
preme mettere in rilievo è l’importanza dell’unificazione degli sforzi in vista
di un fine comune. Il singolo artista segue la sua ispirazione e, poiché ogni
vero artista non può che essere in buona fede, certamente la sua
rappresentazione del mondo rispecchia la drammatica situazione che stiamo
vivendo.
Il rischio è che sia
interpretata come la visione di un pittore, poeta o musicista isolato, come lo
sfogo di una singola anima afflitta dal tormento per il brutto che avanza.
Il che non significa che ogni opera
d’arte debba esprimere afflizione e sofferenza. Anzi. L’inno alla vita, la
gioia per la natura che rifiorisce, l’esaltazione dell’amore per tutti gli
esseri viventi sono altrettanti potenti eccitatori da contrapporre all’avidità
del guadagno, al freddo calcolo della ricerca scientifica, alle brutalità
compiute ai danni del mondo animale e vegetale.
Ma in un caso o nell’altro
(esaltazione del bello o denigrazione del brutto) ciò che conta è l’obiettivo
da raggiungere e cioè la graduale conversione dell’umanità a nuovi stili di
vita.
Altre forze
spingeranno nella medesima direzione e purtroppo saranno violente, come quelle
che la natura offesa scatenerà sotto forma di tempeste, uragani, innalzamento
dei mari e così via.
Anche per tentare di
prevenire queste catastrofi è opportuno che il maggior numero possibile di
persone si convinca quanto prima della necessità del cambiamento e, se gli
argomenti razionali non sono in grado di generare questo convincimento, l’arte,
o meglio, l’azione congiunta di tutti gli artisti, può forse ottenere risultati
migliori, può forse “salvare il mondo”.
Mi faccio quindi interprete
del pensiero (vero o presunto) di Fedor Dostoevskij e chiedo a tutti gli uomini
che hanno orientato la loro attività in campo artistico (compresi gli autori
teatrali e cinematografici, i fotografi, gli architetti, i romanzieri, i
compositori musicali, i writers ecc.) di riconoscersi in questo comune sforzo
di cambiamento globale.
Oggi forse il ruolo dell’arte
appare offuscato rispetto ai secoli passati, come se la sua voce fosse sovrastata
dal frastuono del traffico metropolitano, cionondimeno mi auguro che pittori,
poeti e musicisti prendano sempre più coscienza del loro ruolo di “grilli
parlanti” capaci di smuovere la coscienza collettiva dell’umanità e che promuovano
questo nuovo romanticismo all’insegna del motto “la bellezza salverà il
mondo”.
Quando Dostoevskij ha scritto che "per agire intelligentemente non basta l'intelligenza", forse intendeva proprio questo: che servono l'arte e la bellezza. E tra le tante cose che ha scritto, ha scritto anche: "c'entrava anche una sua teoria personale, una teoria così e così, secondo la quale gli uomini si dividono in materiale grezzo e individui speciali , cioè individui per i quali data la loro posizione elevata, la legge non vale, anzi, sono loro che fanno le leggi per gli altri uomini, per il materiale, per la spazzatura". E a quanto sembra,questo è l'unico scritto di Dostoevskij che gli attuali governi del mondo hanno apprezzato veramente.
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