Una leggenda assai diffusa
anche nel mondo ambientalista è che la devastazione della natura da parte dell’uomo
sia di origine piuttosto recente.
Lo sfruttamento intensivo
e sconsiderato delle risorse naturali del pianeta sarebbe iniziato un paio di
secoli or sono o poco più, allorquando il progresso tecnologico e il sistema
produttivo capitalista sfociarono nella rivoluzione industriale.
La rischiosità di una simile impostazione ideologica consiste nel fatto che la colpa di quanto accaduto sembrerebbe imputabile a particolari contingenze storico – filosofico – scientifiche e non ad Homo sapiens in quanto tale.
Per sfatare questa
leggenda e ristabilire l’esatta catena delle responsabilità mi sembra pertanto
utile riferire, seppur succintamente, dei misfatti compiuti dai nostri lontani antenati
già all’alba dei tempi.
Sono solo alcuni esempi che ho rintracciato tra le mie letture. Ognuno di voi potrà effettuare ricerche più approfondite e sono certo che, ahimè, troverà ulteriori prove a sostegno della tesi che il genere umano iniziò a distruggere irrimediabilmente il mondo della natura sin da quando il nostro cervello si evolse in modo abnorme.
Il racconto di Clive Ponting
Un grande storico del comportamento
distruttivo del genere umano è stato l’inglese Clive Ponting. Nel suo libro “Storia verde del mondo” (Torino, S.E.I.,
1992) ha raccontato dettagliatamente le stragi e devastazioni compiute dall’umanità
ai danni della natura.
Uno dei suoi meriti
maggiori, a mio avviso, è stato proprio quello di riferire non solo dei
disastri recenti, ma anche di quelli più antichi, a riprova che l’atteggiamento
di Homo sapiens nei confronti dell’ambiente
è stato di cinico e prepotente sfruttamento sin da quando lo sviluppo del suo
cervello gli ha consentito di passare da habilis
ad erectus e poi per l’appunto a sapiens.
Questo atteggiamento, di cui finalmente
iniziamo a renderci conto, consiglierebbe di cambiare l’aggettivo che ci
contraddistingue da “sapiens” a “vastator” (devastatore): chi vorrà farsi
promotore di tale modifica?
Ma lasciamo direttamente
la parole a Clive Ponting:
"La riduzione degli habitat naturali e l’estinzione delle specie su scala locale si può notare dal tempo dei primi insediamenti umani. Nella valle del Nilo l’estensione della zona coltivata, la bonifica delle paludi e la caccia sistematica degli animali portò all’eliminazione di molte specie originariamente native della zona. Al tempo del Regno Antico (2950 – 2350 a.C.) animali come gli elefanti, i rinoceronti e le giraffe erano scomparsi dalla valle. Il diffondersi della colonizzazione nel Mediterraneo produsse gli stessi risultati […] Nel 200 a.C. il leone e il leopardo erano estinti in Grecia e nelle zone costiere dell’Asia Minore […] La consuetudine romana di uccidere deliberatamente animali selvatici nel corso di giochi e altri spettacoli aumentò il massacro. Si può dedurre l’entità della continua distruzione perpetrata per divertire le folle di tutto l’impero romano, anno dopo anno, per secoli, dal fatto che a Roma furono uccisi 9000 animali nel corso delle celebrazioni durate 100 giorni per l’inaugurazione del Colosseo, e 11.000 per festeggiare la conquista della nuova provincia della Dacia da parte di Traiano."
"I grandi spettacoli dell’impero romano cessarono in Europa Occidentale dopo il V secolo, ma la distruzione del patrimonio naturale continuò in altri modi."
"L’ultimo
avvistamento di un lupo di cui si ha notizia avvenne nel 1486 in Inghilterra,
nel 1576 in Galles, nel 1743 in Scozia e in Irlanda nel primo Ottocento. Anche
l’orso bruno era comune in tutta l’Europa Occidentale medievale (pur essendosi
estinto in Gran Bretagna entro il X secolo). Tuttavia il numero di esemplari
diminuì costantemente in seguito alla caccia e alla distruzione dell’habitat e
ora l’animale sopravvive solo in alcune remote zone montuose. La stessa sorte
toccò al castoro, anch’esso comune nell’Europa medievale e catturato con le
trappole per la sua pelliccia, che si estinse in Gran Bretagna già nel XIII secolo
e in seguito in quasi tutto il resto
d’Europa." (pp. 180 – 182)
Queste brevi frasi estrapolate da un discorso più articolato riguardano i danni inferti alla fauna. Ma l’accanimento contro selve e foreste non fu da meno. Nel capitolo “Distruzione e sopravvivenza” del libro citato vi è un dettagliato resoconto dei danni ambientali provocati circa 10.000 anni fa con l’introduzione dell’agricoltura. I cacciatori – raccoglitori si nutrivano di ciò che trovavano o di ciò che riuscivano a catturare. La loro “impronta ecologica” era pertanto minima, insignificante. Ma per far spazio ai campi occorreva disboscare e poi irrigare, operazioni che furono tra le prime a modificare in modo sensibile il panorama e l’habitat dei territori popolati dall’uomo. Ovviamente queste perturbazioni crebbero di intensità e di ampiezza con il trascorrere del tempo, man mano che la comunità umana diveniva più numerosa. Ma la linea di tendenza era tracciata e di lì in avanti non fece che crescere. Per i dettagli rinvio il lettore al capitolo del libro di Ponting.
Il resoconto di Richard Leakey
Il famoso paleoantropologo
keniano di origine britannica Richard Leakey nel suo libro “La Sesta Estinzione” dedica un apposito
capitolo, il decimo, a “L’impatto dell’uomo
nel passato”.
Qui esamina i casi di estinzione
- della
megafauna in America alla fine del Pleistocene (13 / 12.000 anni fa),
- dei
moa giganteschi della Nuova Zelanda (circa 1.000 anni fa),
- dell’avifauna
delle isole Hawaii.
1. Il primo caso è ben
noto anche e soprattutto per gli studi condotti da un altro famoso
paleontologo, Paul Martin, autore di “Preistoric
Overkill”. Più recentemente Stefano Mancuso parla di questa strage nel suo
libro “L’incredibile viaggio delle piante”
citando uno studio del 2009 di tre studiosi americani “Quantifying the Extent of North American Mammal Extinction Relative to
the Pre-Anthropogenic Baseline” (reperibile in rete).
In estrema sintesi: i
primi rappresentanti di "Homo sapiens,
abilissimo cacciatore, le cui capacità predatorie si erano affinate per decine
di migliaia di anni in Africa e in Eurasia" giunsero in America dall’Asia
(passando dal ponte di terra dello stretto di Bering) in coincidenza con la
fine dell’ultima era glaciale. Si trattò di una "espansione esplosiva […] facilitata da una illimitata disponibilità di
risorse – terre e prede". Risultato di questa "inesorabile avanzata" fu lo sterminio di tutti i mastodonti che
popolavano in gran numero il continente americano e, conseguentemente, dei loro
predatori ("leoni, orsi giganteschi,
tigri dai denti a sciabola […]") a cui venne meno la principale risorsa
alimentare.
Una vera estinzione di
massa provocata dall’uomo.
2. Le isole che oggi fanno
parte della Nuova Zelanda ebbero il privilegio di non essere intaccate dalla
presenza umana sino a circa 1.000 anni fa, quando furono raggiunte e
colonizzate da un popolo di origine polinesiana, i ben noti “maori”.
La fauna locale era
formata esclusivamente da uccelli "ma dei
tipi più straordinari, molti dei quali inetti al volo. Protagonisti di questo
palcoscenico furono i moa giganteschi, creature simili a struzzi alte più di
tre metri e pesanti oltre 250 chilogrammi".
Inutile dire che anche in
questo caso i moa e gli altri uccelli fecero una brutta fine: "I resti dei moa dimostrano che i maori
sfruttavano gli uccelli come fonte di cibo – li cuocevano in forni a terra – e per
ricavarne materiali come le pelli, con le quali si vestivano, e le ossa, che
lavoravano per fabbricare armi e gioielli. Gusci d’uovo svuotati servivano come
contenitori per l’acqua. Finora nei siti archeologici sono stati rinvenuti gli
scheletri di mezzo milione di moa […] i maori devono aver macellato i moa per
molte generazioni prima che gli uccelli si estinguessero."
3. Il caso delle Hawaii è emblematico. Trattandosi di uno degli arcipelaghi più isolati del mondo, ospitava specie animali e vegetali uniche, non presenti altrove. Tutta questa varietà scomparve per colpa dell’uomo, come sempre. Ma "fino a poco tempo fa gli studiosi davano […] per scontato che la devastazione ecologica […] fosse una conseguenza della colonizzazione europea, avvenuta alla fine del Settecento." E invece a partire dal 1970 furono compiuti studi approfonditi da parte di più di un naturalista ed emerse che il patrimonio di biodiversità tipico delle Hawaii "si era estinto a distanza di qualche secolo dall’arrivo dei primi coloni polinesiani".
Il mistero delle navi vichinghe
Per concludere questa
nostra breve carrellata sui delitti ecologici commessi da Homo sapiens ben
prima dell’era contemporanea, può essere di un qualche interesse svelare il
segreto dei “drakkar”, le famose navi con le quali i Vichinghi navigarono dalla
Scandinavia sino al nord America superando le tempeste dell’Atlantico.
Ce lo racconta il
professor Andreas Hennius, direttore della sezione Archeologia dell’Università
di Uppsala in un suo studio dal titolo “Produzionedi catrame in età vichinga e sfruttamento del territorio” citato da un
articolo di Repubblica del 19 novembre 2018 dove si dice che:
“Il segreto dei vichinghi era il catrame: i drakkar erano resi
totalmente impermeabili da molti strati di catrame che proteggevano lo scafo. I
vichinghi usavano per ogni nave una quantità di catrame fino a dieci volte
superiore a quella impiegata normalmente all'epoca, e a tal fine deforestarono
e costruirono presso le loro città e villaggi pozzi per la produzione di
catrame con il legname, per poi trasportarlo nelle città costiere e nei loro
porti.”
“[…] senza i passi avanti per l'epoca rivoluzionari compiuti dai vichinghi
nella tecnica e tecnologia di produzione del catrame, le loro spedizioni
transoceaniche non sarebbero state possibili […]”
“ Prima di allora, la produzione di catrame era svolta, in Nord Europa e
altrove, su base artigianale. [...] A partire dall'VIII secolo d.C. … aumentò
drasticamente in Scandinavia.”
“I vichinghi riuscirono a raggiungere una produzione di catrame pari a
quella industriale costruendo molti pozzi per bruciare le sostanze vegetali e
produrre catrame presso i villaggi vicini alle foreste di pini, ampiamente
disboscate.”
Per inciso è appurato che
anche i Fenici, i Greci e tutti gli altri grandi popoli navigatori dell’antichità
disboscarono a man bassa per realizzare le loro navi e le loro case. I cedri
del Libano furono le prime vittime illustri di questo sterminio.
Altro che visione
idilliaca dell’antichità contrapposta alla nostra voracità odierna: da quando
abbiamo iniziato a ragionare ci siamo rapportati al mondo della natura in modo
brutale e sopraffatorio.
E per giustificare questo
nostro atteggiamento ci siamo persino attribuiti presunte investiture divine che
ci avrebbero autorizzato a disporre del creato a nostro piacimento e volontà.
Oggi i risultati sono
sotto gli occhi di tutti, ma l’origine della devastazione viene da molto
lontano ed è tragicamente coeva dell’abnorme evoluzione patìta dal nostro cervello.
Quindi che fare? Esistono soluzioni o dobbiamo solo stare a guardare ?
RispondiEliminaPremesso che la verità, ancorché scomoda e irrimediabile, va comunque proclamata, nel caso specifico del Cancrismo la denuncia della estrema nocività del genere umano ha l'obiettivo di scuotere le coscienze dei candidi "ottimisti ad oltranza" e di coinvolgerli nella lotta per la conservazione della Biosfera.
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