(fonte: Stop fonti fossili)
Ci si sente piccoli e inoffensivi rispetto alla sconfinata vastità delle terre emerse, delle masse oceaniche e dell’atmosfera che ci sovrasta.
Ciò spiega perché molti individui sono sordi alle grida d’allarme sugli sconquassi ambientali provocati dalla frenesia che permea l’odierna civiltà umana.
In parte ciò è anche il retaggio mentale di un’epoca affatto lontana, di cui gli anziani sono testimoni diretti, nella quale la popolazione della nostra specie di bipedi era di gran lunga inferiore ai quasi otto miliardi raggiunti nell’indifferenza generale, e la natura riusciva ancora a metabolizzare efficacemente i prodotti di scarto generati dalle attività umane.
Ma la crescita esponenziale del numero
di individui e della prosperità verificatesi nel giro di sole due generazioni
non poteva dispiegarsi senza un assalto altrettanto esponenziale alle risorse
del pianeta, doppiamente irresponsabile in quanto incurante sia della loro
finitezza sia delle conseguenze della produzione di residui da smaltire, con il
risultato che oggi sempre più persone cominciano ad assaporare l’amaro calice
del raggiungimento dei limiti dello sviluppo lucidamente anticipati dal
rapporto del Club di Roma quarantacinque anni fa.
Fra i vari limiti con cui ci stiamo scontrando, il più appariscente è rappresentato dall’insostenibile accumulo delle scorie che residuano dalla trasformazione della materia presente sulla crosta terrestre, depredata a mani basse in nome di una idea malata di benessere.
Per questo, ai tanti che ancora guardano ai
processi economici come un inevitabile flusso unidirezionale che a partire
dalla manipolazione di risorse naturali genera presto o tardi rifiuti di cui
farsi carico, vorrei proporre uno spunto di riflessione basato su alcuni numeri
inediti.
Il primo di essi richiede però che vi mettiate comodi, perché può far venire le vertigini: espresso in grammi, il numero è 3 seguito da 19 zeri, o se preferite trenta trilioni di tonnellate. Per chi è avvezzo alle cifre astronomiche, può fare più effetto lo stesso valore espresso per unità di superficie, che è pari a più di 50 kg per metro quadro, compresi gli oceani e le terre inabitate.
A tanto
ammonta, secondo un recente studio, il peso della componente fisica della
tecnosfera, ovvero quel derivato della biosfera composto dalla miriade di
materiali prodotti dalla tecnologia umana, diffusi sulle terre emerse, negli
oceani e in atmosfera. In termini geologici, la tecnosfera è uno degli elementi
caratterizzanti l’Antropocene, l’era gonfia di nubi minacciose segnata dal
dominio della specie Homo sapiens sapiens sul pianeta, che tutti noi stiamo
vivendo qui ed ora.
Può sembrare un concetto vago o astruso di puro sapore accademico, ma un semplice esempio fa capire che non lo è affatto.
A Berlino, l’accumulo dei circa 75 milioni di metri cubi di macerie prodotte dai bombardamenti a tappeto degli edifici durante la Seconda Guerra Mondiale ha generato una collina artificiale, Teufelsberg, ora ricoperta da vegetazione e da altri edifici, che si eleva fino a 40 metri dal livello della pianura circostante.
Il profilo stratigrafico
della città odierna permette così di distinguere chiaramente i depositi
risalenti al Pleistocene dai residui sovrastanti appartenenti all’Antropocene.
Non stupisce che la parte quantitativamente più rilevante della tecnosfera (circa un terzo secondo gli autori dello studio) sia costituita dalle città, cresciute come un cancro in tutto il mondo dall’ultimo dopoguerra.
Il modello urbano, del resto,
alimentato da un abbondante flusso di energia fossile a buon mercato, ha
rappresentato ed è tuttora la chiave di volta dello sviluppo della
civilizzazione umana: nelle città grandi e piccole, dunque, si è andata
concentrando assieme ai suoi abitanti una massa colossale dell’infinità di
frutti della tecnologia ancora in uso (palazzi, strade, infrastrutture, ecc.),
mentre i sottoprodotti solidi, liquidi e gassosi che non si è voluto o potuto
utilizzare, come pure un numero sterminato di cose al termine della loro vita
utile, sono stati dispersi in ogni dove, rendendo la tecnosfera
inestricabilmente connessa con la biosfera da cui origina.
I rifiuti, intesi nel senso più ampio del termine, sono in effetti la frazione in qualche modo più significativa della tecnosfera, quella che aumenta più rapidamente e che desta le maggiori preoccupazioni sia per le conseguenze a breve termine del suo accumulo (pensiamo agli impatti sanitari delle mille forme di inquinamento note e non note) che per quelle sul medio-lungo periodo come il riscaldamento globale.
Tornando ai numeri, limitandoci al solo biossido di carbonio di
origine antropica emesso in atmosfera stiamo parlando di una massa pari a un
trilione di tonnellate, equivalente a 150.000 piramidi di Cheope, che aumenta di
17 miliardi di tonnellate ogni anno che Dio manda in Terra.
Se dagli scarti allo stato aeriforme passiamo a quelli allo stato solido, le cose non vanno certo meglio. Il pensiero va automaticamente a quei non-luoghi per eccellenza che sono le discariche, che dovrebbero essere oggetto di visite guidate obbligatorie da parte delle scolaresche per la valenza educativa che eserciterebbero, e che tuttavia non rappresentano che una frazione del destino finale di tutti i rifiuti solidi urbani o industriali incombusti.
Di fronte
alla formidabile macchina da guerra dell’economia basata sui consumi, niente e
nessuno ha potuto impedire che essi venissero dispersi in ogni angolo del
pianeta, compreso il sottosuolo e le profondità degli abissi marini, fino a
contaminare lo spazio remoto, disseminato da rottami di sonde e satelliti
orbitanti.
Il peccato originale da cui è scaturita la diffusione incontrollata di materiali di scarto è evidentemente il libero arbitrio concesso all’industria, la quale ha potuto ideare e commercializzare indisturbata qualsivoglia bene di consumo infischiandosene del suo destino a fine vita, fino ad accorciarne deliberatamente la durata con la deprecabile pratica progettuale dell’obsolescenza programmata.
Il simbolo trionfante di una tale irresponsabile bulimia produttivista orientata alla materialità piuttosto che all’utilità è rappresentato senza dubbio dalla plastica, i cui effetti nefasti sembrano sovrastare ogni giorno di più i benefici.
L’indistruttibilità della plastica (o per meglio dire delle plastiche, perché il limite più grande al riciclo di questi polimeri è proprio la loro estrema eterogeneità) è un altro dei frutti avvelenati del petrolio di cui a distanza di 54 anni dal premio Nobel conferito a Giulio Natta stiamo finalmente prendendo coscienza.
Abbiamo dovuto attendere
che i mari si trasformassero in zuppe di plastica per convincere le istituzioni
a parlare di economia circolare. Ma siamo purtroppo ancora molto lontani dal
mettere sistematicamente in pratica il sacrosanto principio della chiusura del
cerchio, e delle famose tre R – ridurre, riusare, riciclare – ci limitiamo per
lo più (quando va bene) a declinare l’ultima, perché la riduzione dei consumi e
il riuso degli oggetti non sono certo ben visti dall’establishment dominante
orientato alla crescita ad ogni costo.
Il percorso
che porta a ricondurre le scorie generate dall’uomo nell’alveo dei processi
rigenerativi naturali è ancora lungo e accidentato, ma forse la consapevolezza
che tutti in un modo o nell’altro stiamo già camminando sulle macerie, come
quelle della Berlino del Terzo Reich, può aiutarci almeno ad allontanare la
resa dei conti finale fra la biosfera amica e quella parte di tecnosfera che le
ha dichiarato guerra.
Da piangere, ho 64 anni ed ho assistito a questo scempio.
RispondiEliminaGianni Tiziano