martedì 19 ottobre 2021

Una tecnosfera vi seppellirà, di Stefano Ceccarelli

 (fonte: Stop fonti fossili)


Ci si sente piccoli e inoffensivi rispetto alla sconfinata vastità delle terre emerse, delle masse oceaniche e dell’atmosfera che ci sovrasta.

Ciò spiega perché molti individui sono sordi alle grida d’allarme sugli sconquassi ambientali provocati dalla frenesia che permea l’odierna civiltà umana.

In parte ciò è anche il retaggio mentale di un’epoca affatto lontana, di cui gli anziani sono testimoni diretti, nella quale la popolazione della nostra specie di bipedi era di gran lunga inferiore ai quasi otto miliardi raggiunti nell’indifferenza generale, e la natura riusciva ancora a metabolizzare efficacemente i prodotti di scarto generati dalle attività umane.

Ma la crescita esponenziale del numero di individui e della prosperità verificatesi nel giro di sole due generazioni non poteva dispiegarsi senza un assalto altrettanto esponenziale alle risorse del pianeta, doppiamente irresponsabile in quanto incurante sia della loro finitezza sia delle conseguenze della produzione di residui da smaltire, con il risultato che oggi sempre più persone cominciano ad assaporare l’amaro calice del raggiungimento dei limiti dello sviluppo lucidamente anticipati dal rapporto del Club di Roma quarantacinque anni fa.

Fra i vari limiti con cui ci stiamo scontrando, il più appariscente è rappresentato dall’insostenibile accumulo delle scorie che residuano dalla trasformazione della materia presente sulla crosta terrestre, depredata a mani basse in nome di una idea malata di benessere.

Per questo, ai tanti che ancora guardano ai processi economici come un inevitabile flusso unidirezionale che a partire dalla manipolazione di risorse naturali genera presto o tardi rifiuti di cui farsi carico, vorrei proporre uno spunto di riflessione basato su alcuni numeri inediti.

Il primo di essi richiede però che vi mettiate comodi, perché può far venire le vertigini: espresso in grammi, il numero è 3 seguito da 19 zeri, o se preferite trenta trilioni di tonnellate. Per chi è avvezzo alle cifre astronomiche, può fare più effetto lo stesso valore espresso per unità di superficie, che è pari a più di 50 kg per metro quadro, compresi gli oceani e le terre inabitate.

A tanto ammonta, secondo un recente studio, il peso della componente fisica della tecnosfera, ovvero quel derivato della biosfera composto dalla miriade di materiali prodotti dalla tecnologia umana, diffusi sulle terre emerse, negli oceani e in atmosfera. In termini geologici, la tecnosfera è uno degli elementi caratterizzanti l’Antropocene, l’era gonfia di nubi minacciose segnata dal dominio della specie Homo sapiens sapiens sul pianeta, che tutti noi stiamo vivendo qui ed ora.

Può sembrare un concetto vago o astruso di puro sapore accademico, ma un semplice esempio fa capire che non lo è affatto.

A Berlino, l’accumulo dei circa 75 milioni di metri cubi di macerie prodotte dai bombardamenti a tappeto degli edifici durante la Seconda Guerra Mondiale ha generato una collina artificiale, Teufelsberg, ora ricoperta da vegetazione e da altri edifici, che si eleva fino a 40 metri dal livello della pianura circostante.

Il profilo stratigrafico della città odierna permette così di distinguere chiaramente i depositi risalenti al Pleistocene dai residui sovrastanti appartenenti all’Antropocene.

Non stupisce che la parte quantitativamente più rilevante della tecnosfera (circa un terzo secondo gli autori dello studio) sia costituita dalle città, cresciute come un cancro in tutto il mondo dall’ultimo dopoguerra.

Il modello urbano, del resto, alimentato da un abbondante flusso di energia fossile a buon mercato, ha rappresentato ed è tuttora la chiave di volta dello sviluppo della civilizzazione umana: nelle città grandi e piccole, dunque, si è andata concentrando assieme ai suoi abitanti una massa colossale dell’infinità di frutti della tecnologia ancora in uso (palazzi, strade, infrastrutture, ecc.), mentre i sottoprodotti solidi, liquidi e gassosi che non si è voluto o potuto utilizzare, come pure un numero sterminato di cose al termine della loro vita utile, sono stati dispersi in ogni dove, rendendo la tecnosfera inestricabilmente connessa con la biosfera da cui origina.

I rifiuti, intesi nel senso più ampio del termine, sono in effetti la frazione in qualche modo più significativa della tecnosfera, quella che aumenta più rapidamente e che desta le maggiori preoccupazioni sia per le conseguenze a breve termine del suo accumulo (pensiamo agli impatti sanitari delle mille forme di inquinamento note e non note) che per quelle sul medio-lungo periodo come il riscaldamento globale.

Tornando ai numeri, limitandoci al solo biossido di carbonio di origine antropica emesso in atmosfera stiamo parlando di una massa pari a un trilione di tonnellate, equivalente a 150.000 piramidi di Cheope, che aumenta di 17 miliardi di tonnellate ogni anno che Dio manda in Terra.

Se dagli scarti allo stato aeriforme passiamo a quelli allo stato solido, le cose non vanno certo meglio. Il pensiero va automaticamente a quei non-luoghi per eccellenza che sono le discariche, che dovrebbero essere oggetto di visite guidate obbligatorie da parte delle scolaresche per la valenza educativa che eserciterebbero, e che tuttavia non rappresentano che una frazione del destino finale di tutti i rifiuti solidi urbani o industriali incombusti.

Di fronte alla formidabile macchina da guerra dell’economia basata sui consumi, niente e nessuno ha potuto impedire che essi venissero dispersi in ogni angolo del pianeta, compreso il sottosuolo e le profondità degli abissi marini, fino a contaminare lo spazio remoto, disseminato da rottami di sonde e satelliti orbitanti.

Il peccato originale da cui è scaturita la diffusione incontrollata di materiali di scarto è evidentemente il libero arbitrio concesso all’industria, la quale ha potuto ideare e commercializzare indisturbata qualsivoglia bene di consumo infischiandosene del suo destino a fine vita, fino ad accorciarne deliberatamente la durata con la deprecabile pratica progettuale dell’obsolescenza programmata.

Il simbolo trionfante di una tale irresponsabile bulimia produttivista orientata alla materialità piuttosto che all’utilità è rappresentato senza dubbio dalla plastica, i cui effetti nefasti sembrano sovrastare ogni giorno di più i benefici.

L’indistruttibilità della plastica (o per meglio dire delle plastiche, perché il limite più grande al riciclo di questi polimeri è proprio la loro estrema eterogeneità) è un altro dei frutti avvelenati del petrolio di cui a distanza di 54 anni dal premio Nobel conferito a Giulio Natta stiamo finalmente prendendo coscienza.

Abbiamo dovuto attendere che i mari si trasformassero in zuppe di plastica per convincere le istituzioni a parlare di economia circolare. Ma siamo purtroppo ancora molto lontani dal mettere sistematicamente in pratica il sacrosanto principio della chiusura del cerchio, e delle famose tre R – ridurre, riusare, riciclare – ci limitiamo per lo più (quando va bene) a declinare l’ultima, perché la riduzione dei consumi e il riuso degli oggetti non sono certo ben visti dall’establishment dominante orientato alla crescita ad ogni costo.

Il percorso che porta a ricondurre le scorie generate dall’uomo nell’alveo dei processi rigenerativi naturali è ancora lungo e accidentato, ma forse la consapevolezza che tutti in un modo o nell’altro stiamo già camminando sulle macerie, come quelle della Berlino del Terzo Reich, può aiutarci almeno ad allontanare la resa dei conti finale fra la biosfera amica e quella parte di tecnosfera che le ha dichiarato guerra.



1 commento:

  1. Da piangere, ho 64 anni ed ho assistito a questo scempio.

    Gianni Tiziano

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