(fonte: Stop fonti fossili)
Non viene ricordato mai abbastanza che l’ingrediente fondamentale che ha reso possibile lo sviluppo dell’economia e il nostro benessere è la disponibilità di energia abbondante a basso costo.
Senza il carbone prima, il petrolio e il gas dopo, il mondo non sarebbe neanche lontanamente quello che oggi è, nel bene e nel male. Chi scrive si batte per l’avvento di una nuova civilizzazione che abbandoni l’uso delle fonti fossili per i motivi che tutti sappiamo, riscaldamento globale in primis.
E tuttavia, in un’economia globalizzata e intimamente interconnessa, ciò non può avvenire dall’oggi al domani, anche se lo volessimo tutti.
I dati relativi ai consumi energetici mondiali suddivisi fra le varie fonti indicano che l’attuale sistema economico si regge ancora per l’80% sui combustibili fossili, primo fra tutti il petrolio.
La tanto decantata impetuosa crescita delle fonti rinnovabili di
questi anni, sebbene molto rilevante in termini relativi, si è tradotta
purtroppo in un incremento di pochi punti percentuali in valore assoluto:
dunque per rimpiazzare almeno in gran parte le fonti fossili potranno volerci
nella migliore delle ipotesi non meno di venti-trenta anni.
Diventa così fondamentale analizzare gli scenari prossimi
venturi relativi alla disponibilità e al costo del petrolio. Sono consapevole
che la questione è tremendamente complessa e ardua da districare, e tuttavia, a
beneficio dei profani fra i quali mi annovero anch’io, vorrei provare a
semplificare elencando schematicamente una serie di fatti e tendenze che
sembrano remare tutti nella stessa direzione, facendo univocamente presagire
tempi duri per l’industria petrolifera e per tutti noi nella misura in cui continueremo
ad essere dipendenti dai suoi prodotti.
Ritorni
decrescenti dell’attività estrattiva. Questo tema meriterebbe
ben altro rilievo e una trattazione più ampia. Mi limito in questa sede ad
enunciarne le linee generali: in ogni giacimento, man mano che si procede con
l’estrazione, il petrolio che resta diventa sempre più difficile da tirar
fuori. Dopo aver raggiunto il picco, la produzione e la qualità diminuiscono ed
i costi estrattivi e di raffinazione aumentano, fino a che la quantità di
energia netta ottenuta si avvicina a quella richiesta per l’estrazione,
rendendo a quel punto inevitabile l’abbandono del giacimento. Già oggi,
complici le attuali basse quotazioni del greggio, molti dei pozzi di shale oil statunitense (la
cui vita media peraltro è di pochi anni) e di altre fonti fossili non
convenzionali lavorano in perdita, e le società che li gestiscono sono
destinate a fallire trascinando con loro gli incauti finanziatori se il prezzo
del petrolio non aumenterà a sufficienza in tempi ragionevoli.
Rischi
crescenti delle nuove esplorazioni. Il recente abbandono dei
programmi di esplorazione dell’Artico da parte di Shell rappresenta un
pericoloso campanello d’allarme per le aziende alla ricerca di nuovo petrolio
da estrarre. Del resto, è significativo che, dopo aver trivellato sempre più in
profondità il sottosuolo, i mari e i luoghi più improbabili del pianeta si sia
giunti fino a minacciare un ecosistema fragile e al tempo stesso ostile come
l’Artico pur di soddisfare la sete di petrolio mondiale. Dunque, se fino ad ora
l’esaurimento dei vecchi pozzi è stato in qualche modo compensato dalla messa
in esercizio di nuovi giacimenti, per il futuro sarà sempre più difficile
effettuare nuove scoperte di idrocarburi e portarle alla fase di sfruttamento a
costi sostenibili, tenendo anche conto del generale inasprimento degli standard
ambientali e della sempre minor accettazione delle nuove attività estrattive da
parte delle collettività interessate. Insomma, anche ipotizzando che il
riscaldamento globale sia una frottola e che quindi non debbano esserci remore
di sorta nel continuare a trivellare il sottosuolo, non è pensabile immaginare
un petrolio abbondante e a basso costo nei decenni a venire.
Crisi
economica. Nonostante gli sforzi disperati messi in atto dai governi
mondiali e i timidi segnali di ripresa (in cui peraltro proprio i bassi prezzi
del petrolio giocano un ruolo non secondario) enfatizzati dai media mainstream, la crisi
economica innescata dal fallimento della Lehman-Brothers nel 2008 è ancora viva
e incide dolorosamente nella carne viva delle persone. Gli scricchiolii
sinistri che si avvertono qua e là nell’economia globale sono sempre più
numerosi e inquietanti, primo fra tutti l’inattesa vistosa contrazione della
crescita cinese che si è cominciata ad appalesare questa estate. Un’economia in
sofferenza non può tollerare alti prezzi del petrolio pena un inasprimento
della recessione, motivo per cui le quotazioni del barile, attualmente ai
minimi da diversi anni, non potranno risalire senza che ciò abbia delle
conseguenze pesanti sull’economia reale.
Invecchiamento
della popolazione nei Paesi sviluppati. In Europa e negli USA,
la diminuzione della popolazione in età lavorativa combinata con la sensibile
progressiva decurtazione degli assegni pensionistici condurrà verosimilmente ad
una riduzione complessiva del reddito disponibile e quindi ad un calo dei
consumi, che si rifletterà in un’ulteriore contrazione della domanda di
prodotti petroliferi. A ciò si aggiunga il continuo inevitabile ridimensionamento
del settore immobiliare, che con il suo indotto cementizio e metallurgico è uno
dei più energivori del nostro sistema economico.
Debito
globale. Se lo scoppio della bolla finanziaria nel 2008 non si è
tramutato in un catastrofico collasso dell’economia globale lo si deve in primo
luogo alle massicce iniezioni di liquidità immessa nel sistema dalle banche
centrali delle potenze mondiali, unitamente alla discesa dei tassi di interesse
fin quasi allo zero assoluto. Ora, può anche darsi che la finanza creativa dei
banchieri inventerà altri magici trucchi per dilazionare ancora un po’ il redde rationem, ma sembra
francamente difficile immaginare che un ulteriore crescita dell’indebitamento
di stati e imprese sia in qualche modo sostenibile. In un simile scenario, alla
luce dei rischi di cui si è detto, l’accesso al credito per chi voglia
investire in nuove ricerche petrolifere diventa vieppiù problematico.
Crescita
economica nei Paesi OPEC. Come è noto, i giacimenti più
grandi del pianeta, che sono anche quelli in media con i costi estrattivi più
bassi, si trovano nei Paesi che si affacciano sul Golfo Persico, primo fra
tutti l’Arabia Saudita. L’abbondanza di petrolio ha favorito una vigorosa
crescita dell’economia e della popolazione di questi paesi, i cui consumi
interni di petrolio sono quindi destinati ad aumentare in modo significativo,
facendo parallelamente diminuire la quota di greggio destinata
all’esportazione. Ciò significa che la quantità di petrolio a basso costo per i
paesi importatori quali le economie europee potrebbe ridursi in modo
considerevole negli anni a venire.
Carbon
tax e riduzione dei sussidi. Per quanto blande e inefficaci
potranno essere le misure dirette a contrastare i cambiamenti climatici che
saranno contenute nel pacchetto che sarà approvato alla conferenza di Parigi di
dicembre, esse non potranno non condurre da parte degli stati all’adozione e/o
al rafforzamento di strumenti di tassazione dei combustibili fossili che ne
scoraggino l’impiego in favore delle fonti rinnovabili. Del resto, persino il
Fondo Monetario Internazionale, che tutto è fuorché un paladino
dell’ambientalismo, ha recentemente auspicato l’adozione di una carbon tax.
Parimenti sarà inevitabile procedere ad una riduzione degli enormi sussidi che
tengono in piedi l’industria petrolifera. Tutto ciò potrebbe tendere a spingere
ancora più in basso i prezzi al netto delle tasse e condurrà ad un’ulteriore
erosione degli introiti dei produttori.
La domanda a questo punto è: a cosa potrà condurre il combinato
disposto di tutto quanto sopra illustrato? Non mi azzardo, ovviamente, a
fornire una risposta univoca viste le mille variabili in gioco. Tra l’altro la
possibilità che si verifichi uno shock di dimensioni tali da scombussolare
l’intera economia non è per nulla peregrina. Personalmente, sulla scorta di
quanto ipotizzato da studiosi della materia trovo verosimile, se i trend
restano quelli che ho cercato di descrivere, che si inneschi una spirale negativa
caratterizzata da alti e bassi delle quotazioni di greggio nella quale una
sempre minore disponibilità di energia fossile aggraverà la crisi economica, e
quest’ultima sarà a sua volta la causa del progressivo abbandono di un numero
sempre maggiore di giacimenti scarsamente redditizi, conducendo ad un’ulteriore
calo dell’offerta e quindi ad una più profonda recessione.
Insomma, decisamente ci aspettano tempi interessanti…
Nessun commento:
Posta un commento