mercoledì 1 dicembre 2021

Aurelio Peccei precursore del Cancrismo?, di Bruno Sebastiani

 



Nel dibattito a più voci raccontato da Ugo Bardi in un post del dicembre 2019 (registrazione reperibile su Youtube), il biologo Enzo Pennetta attacca le tesi di Bardi e del Club di Roma di cui è esponente rammentando, con tono accusatorio, come tale Club sia stato fondato da Aurelio Peccei “il quale definiva l’umanità un cancro del pianeta” (parole testuali).

Avendo io dedicato al Cancrismo vari libri e decine di articoli, ho rizzato subito le antenne e sono andato alla ricerca dei riscontri di tale affermazione.

Dapprima ho trovato in rete (nel sito “bastabugie.it”!) un articolo di Antonio Gaspari dal titolo: “Club di Roma, ieri la bomba demografica, oggi i cambiamenti climatici, ma il nemico è sempre lo stesso: l'umanità”, sottotitolo “Un Club poco raccomandabile”.

Nel mio libro “Il Cancro del Pianeta” (Armando Editore, Roma 2017, pp. 180-181) mi ero già imbattuto nel Gaspari, cattolico intransigente e antiambientalista a tutto campo, il quale ebbe l’infelice idea di scrivere un libro su “Le bugie degli ambientalisti” prima dell’emanazione dell’enciclica “Laudato sì”, nella quale papa Francesco confermava tutte le preoccupazioni degli ambientalisti sullo stato di salute del pianeta.

Ma, tralasciando questo “incidente di percorso” del Gaspari, nell’articolo sopra citato egli accusa Peccei in base a due sue affermazioni:

Fu lui a coniare il termine ‘uomo cancro del pianeta’ e per questo venne spesso indicato come ‘profeta di sventure’. Nel suo libro ‘Cento pagine per l'avvenire’ Peccei ha scritto dell'umanità che ‘Si tratta di una proliferazione esponenziale che non si può definire che cancerosa [....]’ e in un intervista a la Repubblica del 31 dicembre 1980, il fondatore del Club di Roma sentenzia ‘Gli uomini continuano a vivere sul pianeta come i vermi sulla carogna: divorandola. Sanno che alla fine moriranno, ma continuano a divorarla’”.

Poi l’ira del Gaspari si estende a tutto il Club di Roma.

Senza pudore, nel report ‘The First Global Revolution’ del 1991 il club di Roma racconta: ‘Cercando un nuovo nemico contro cui unirci, pensammo che l'inquinamento, la minaccia dell'effetto serra, della scarsità d'acqua, delle carestie potessero bastare [...] Ma nel definirli i nostri nemici cademmo nella trappola di scambiare i sintomi per il male. Sono tutti pericoli causati dall'intervento umano [...] Il vero nemico, allora, è l'umanità stessa’”.

Per quanto riguarda la primogenitura del termine “uomo cancro del pianeta” credo che la questione sia aperta e attendo contributi da parte dei lettori. Per parte mia so che nel 1954 Alan Gregg ne parlò al meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) e Emile Cioran nel suo libro “L’inconveniente di essere nati” del 1973 scrisse: “Alberi massacrati. Sorgono case. Facce, facce dappertutto. L’uomo si estende. L’uomo è il cancro della terra.”

Il testo di Peccei è del 1981; ignoro se avesse ipotizzato la metafora incriminata in scritti o discorsi precedenti. Ma il problema non è la primogenitura della medesima, bensì in che contesto, con quali accezioni e in che termini Peccei ne abbia parlato.

Per approfondire la questione sono andato alla fonte, leggendo il libro citato (“Cento pagine per l’avvenire”, del 1981, ristampato nel 2018 da Giunti Editore) e uno precedente, “La qualità umana”, del 1976, ristampato nel 2014 da Lit Edizioni.

Non sono riuscito a rintracciare l’intervista del 31 dicembre 1980 su Repubblica, in quanto l’archivio digitale di questo giornale decorre dal 1984.

Dirò subito che debbo ringraziare Enzo Pennetta e Antonio Gaspari per avermi fatto scoprire la grande anima inquieta di Aurelio Peccei.

Essi certamente non hanno letto i suoi scritti, ché altrimenti si sarebbero resi conto dello spessore umano e culturale degli stessi e non li avrebbero liquidati spregiativamente come hanno fatto.

Ma iniziamo la disamina da quella che è stata l’accusa che mi ha indotto ad approfondire la questione, e cioè l’aver descritto l’uomo come cellula tumorale maligna della biosfera.

Effettivamente a pag. 66 della nuova edizione di “Cento Pagine per l’Avvenire” vi è un paragrafo dal titolo “Metastasi cancerosa della popolazione”. Al di là di questa definizione, che si riferisce al fenomeno della sovrappopolazione, a mio avviso vi sono altri punti in cui Peccei è stato maggiormente tentato da quella folgorazione intellettuale secondo cui la nostra specie, lungi dal costituire il punto più elevato del processo evolutivo, rappresenta un errore del medesimo.

È dunque in uno slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura produce la sua ultima grande specie, quella cui abbiamo dato il nome di homo sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al controllo della selezione immediata, oppure ammesso con la condizionale nel grande flusso della vita?” (ivi, p. 56)

Come non ricordare su questo tema quanto ebbero a scrivere Goethe, Dostoevskij e Nietzsche?

Il piccolo dio del mondo (l’uomo, n.d.a.) […] vivrebbe un po’ meglio se tu (Dio, n.d.a.) non gli avessi dato il riflesso della luce celeste, ch’egli chiama ragione e usa soltanto per essere più bestia di ogni bestia.” (J.W. Goethe, Faust, Prima parte, Prologo in cielo)

“[…] aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Per i bisogni dell’uomo sarebbe d’avanzo una comune coscienza umana, ossia la metà, la quarta parte di quella che tocca a un uomo evoluto del nostro infelice diciannovesimo secolo […] sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia.” (F. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Milano, Rizzoli, 1975, p. 25)

Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice.” (F. Nietzsche, La gaia Scienza, aforisma 224)

Pennetta e Gaspari intendono sbarazzarsi in modo sbrigativo e superficiale anche di questi tre colossi del pensiero? O di fronte alle loro affermazioni sono disposti a riconsiderare i propri giudizi? Ma non è questo l’argomento che intendo trattare.

Vorrei invece far notare che le frasi di Peccei sopra riportate terminano con un punto di domanda e sono seguite da una frase che, se non rappresenta una assoluzione con formula piena per il genere umano, ne è quantomeno una assoluzione con formula dubitativa:

Io propongo tuttavia di dare provvisoriamente un giudizio a favore dell’uomo, tenendo conto che un milione di anni è probabilmente un periodo troppo corto, in confronto ai cicli dell’evoluzione, per trarre conclusioni definitive.” (A. Peccei, Cento pagine per l’avvenire, cit. p. 56)

Più avanti Peccei torna a parlare della possibile nocività di Homo sapiens, ma sempre all’interno di frasi rette da verbi al condizionale e costruite in forma dubitativa.

Già ci siamo chiesti se l’Homo sapiens, rispetto al maestoso fluire dell’evoluzione, non rappresenti, tutto considerato, un fenomeno deviante; se non sia un capriccio della Natura, o un tentativo ambizioso andato male, un errore di fabbricazione che gli aggiustamenti che assicurano il rinnovarsi della vita si incaricheranno a tempo debito di eliminare o di rettificare in qualche modo.” (ivi, p. 66)

Le nostre capacità tecniche ci hanno forse posti su un piedistallo troppo alto? Siamo per caso una specie di geni […] O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri […] che finiranno per restare vittime del loro stesso malsano operare? Visto il caos formidabile che abbiamo creato, è difficile difendere la tesi del genio. La tesi opposta […] non si può invece escludere così facilmente. […] Questo carattere farebbe parte del suo codice genetico [che] lo condannerebbe quindi a continuare la sua epopea imperiale e sanguinosa […] l’uomo non avrebbe alcuna possibilità di sfuggire al giogo della sua intelligenza unica, che gli dei o il caso hanno tuttavia voluto cieca.” (ivi, pp. 80-81)

Frasi pesanti come macigni, frammiste a tante altre che denotano l’eccezionale irrequietudine intellettuale di Aurelio Peccei.

Ma sempre seguite da una nota di speranza.

Pur riconoscendo che questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo. La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.” (ivi, p. 81

È un apprendistato difficile quello che ci aspetta [] reso ancor più arduo dal fatto che il tempo gioca inesorabilmente contro di noi. Ma da qui a dire che l’essere umano è modellato geneticamente in modo tale da non poter cambiare e che di conseguenza si condanna da solo, il passo è grande. L’uomo può salvarsi; sta a noi trovare il modo.” (ivi, p. 82)

E anche seguite dalla consapevolezza delle difficoltà che ci aspettano:

“[…] l’umanità dovrà compiere uno sforzo supremo, eroico, lottare psicologicamente contro se stessa.” (ivi, p. 177)

Di questi sforzi supremi, eroici, tutta la vita di Aurelio Peccei è costellata. Già mentre ricopriva importanti incarichi in primarie aziende (dalla Fiat alla Olivetti, di cui fu amministratore delegato) contribuì alla nascita di associazioni, fondazioni, organizzazioni tutte rivolte ad accrescere nell’umanità la consapevolezza della necessità di un cambiamento radicale di direzione. Leggendo i libri citati ci si può rendere conto di quanto vasta e multiforme sia stata l’opera di Peccei in tal senso. “La Qualità Umana”, in particolare, è una sorta di autobiografia.

Al termine della sua attività lavorativa “ufficiale” poté dedicarsi a tempo pieno a questa missione, il cui esito principale fu la nascita del Club di Roma, con la pubblicazione del primo storico rapporto su “I Limiti dello Sviluppo” e di quelli editi negli anni successivi.

In questa enorme mole di attività si può peraltro intravvedere il dilemma che per tutta la vita deve aver assillato l’animo di questo grande uomo.

Egli fu dirigente industriale, apprezzò la serietà e l’efficienza delle più qualificate imprese private, soprattutto se poste a confronto con l’inefficienza di tanta amministrazione pubblica. Deprecò il fatto che il governo del mondo fosse frantumato in un numero eccessivo di nazioni ed auspicò un nuovo ordine mondiale basato su autorità sovranazionali in grado di aiutare il genere umano a superare le difficoltà economiche e produttive sempre più diffuse.

Avrebbe voluto che amministratori dotati di un’efficienza di tipo “privatistico” governassero il pianeta in modo da sanare tutte le storture esistenti. A pag. 187 di “Cento Pagine per l’Avvenire” fornisce una serie di esempi: la conservazione dell’ambiente; la sradicazione della fame e della malnutrizione, la realizzazione di valide politiche multinazionali dell’energia e di pianificazioni planetarie intersettoriali.

Ma certamente non gli sfuggiva il fatto che questi interventi migliorativi della condizione umana avrebbero comportato, se realizzati, un aumento dei consumi e una ulteriore erosione delle risorse già abbondantemente saccheggiate.

Per tale motivo pose vigorosamente l’accento sulla necessità di ridurre drasticamente la pressione demografica, tema ampiamente ripreso nel Rapporto su “I Limiti dello Sviluppo”.

Auspicò una riconciliazione dell’essere umano con l’ambiente: “A mio giudizio il vero fine dell’avventura umana è di arrivare a creare un mondo in cui le migliori qualità umane possano svilupparsi appieno, in un clima di comprensione reciproca e di simbiosi con la Natura.” (ivi, p. 210, da notare l’uso costante della N maiuscola per il sostantivo natura).

Accanto a questo encomiabile auspicio considerò sempre centrale il ruolo dell’uomo nella biosfera, e quindi rimase saldamente antropocentrico.

L’uomo deve cambiare per poter rimanere al centro della ribalta: “Un modo di pensare fondamentalmente nuovo è indispensabile. Per salvare l’uomo, esso deve trasformarlo, metterlo in condizione di far fronte agli imperativi del nostro tempo […] solo un nuovo umanesimo può compiere il quasi miracolo della rinascita spirituale dell’uomo.” (ivi, pp. 218-219)

Se l’uomo può trasformarsi -pur con difficoltà- in senso positivo, non può essere assimilato a una cellula maligna della biosfera, e Peccei non può essere ascritto alla schiera dei precursori del Cancrismo.

Cionondimeno egli prese attentamente in considerazione l’idea del nostro intelletto come causa dello squilibrio del mondo naturale. I brani qui riportati sono del 1981, e gli anni ’80 dello scorso secolo sono indicati in più di un passaggio come decisivi ai fini del cambiamento di rotta.

Sarebbe interessante sapere se Peccei a quarant’anni di distanza avrebbe mutato la sua opinione sulle possibilità di trasformazione dell’essere umano, tenuto conto che in tale lasso di tempo nessuna modifica migliorativa è intervenuta, ma anzi la distruzione della Natura è ampiamente proseguita.

Ciò ovviamente non si potrà mai sapere, essendo il nostro autore morto nel 1984.

Ma un interessante parallelo può essere fatto con quanto dichiarato nel 2012 alla rivista Format da Dennis Meadows, il coordinatore del Gruppo di Lavoro del MIT che redasse nel 1972 -su incarico del Club di Roma- il rapporto su “I Limiti dello Sviluppo”.

Ecco alcuni passi di quella intervista dal titolo significativo: “Non possiamo più fare niente”:

MEADOWS: Supponiamo di avere il cancro e che questo cancro causi febbre, mal di testa ed altri dolori. Non sono questi il problema reale, è il cancro il problema! Comunque, proviamo a curarne i sintomi. Nessuno spera di sconfiggere il cancro con quelle cure. I fenomeni come il cambiamento climatico o le carestie sono semplicemente sintomi della malattia di questo pianeta, il che ci riporta inevitabilmente alla fine della crescita.

FORMAT: Il cancro come metafora della crescita incontrollata?

MEADOWS: Sì. Le cellule sane ad un certo punto smettono di crescere. Le cellule cancerose proliferano finché non uccidono l’organismo. La popolazione e la crescita economica si comportano nello stesso modo.”

Anche Peccei si sarebbe convertito ad una siffatta teoria? La sua vicinanza con Meadows è fuori discussione e in questi ultimi quarant’anni non si è realizzata alcuna delle aspettative “salvifiche” ipotizzate dal Club di Roma. L’Impero dell’uomo (termine più volte usato da Peccei) sta sprofondando sempre più in basso (a questo tema è dedicato il mio libro di prossima pubblicazione “L’Impero del Cancro del Pianeta”).

L’avventura umana di Peccei mi ricorda quella di un altro grande visionario, il già citato Alan Gregg (1890 – 1957). Costui operò nella Fondazione Rockefeller con incarichi di grande responsabilità, fino a ricoprirne la carica di vice-presidente. Nel corso della sua vita portò aiuti a tutte le popolazioni bisognose, salvo poi, in tarda età, ipotizzare che l’essere umano devasti la biosfera come le cellule tumorali distruggono i tessuti sani dell’ammalato di cancro. E, in occasione del convegno su “I problemi della popolazione” tenutosi a Berkeley, in California, il 28 dicembre 1954, ebbe anche a dire: “Le crescite cancerose richiedono nutrimento; ma, per quanto ne so, non sono mai state curate dandoglielo”, smentendo così il senso di tutta l’attività da lui svolta nel corso della sua vita. (Il testo completo della relazione è consultabile nel blog de Il Cancro del Pianeta).

Peccei non fece mai una simile ritrattazione e continuò sempre a coltivare la speranza del cambiamento. Rimane il dubbio di come avrebbe potuto evolvere il suo pensiero alla luce di quanto accaduto (o meglio di quanto non accaduto) nei decenni successivi alla sua morte.


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