Nel dibattito a più voci raccontato
da Ugo Bardi in un post del dicembre 2019 (registrazione reperibile su Youtube), il biologo Enzo Pennetta attacca le tesi di Bardi e del Club
di Roma di cui è esponente rammentando, con tono accusatorio, come tale Club sia
stato fondato da Aurelio Peccei “il quale definiva l’umanità un cancro del
pianeta” (parole testuali).
Avendo io dedicato al Cancrismo vari libri e decine di articoli, ho rizzato subito le antenne e sono andato alla ricerca dei riscontri di tale affermazione.
Dapprima ho trovato in
rete (nel sito “bastabugie.it”!) un articolo di Antonio Gaspari dal titolo: “Club di Roma, ieri la bomba demografica, oggi i cambiamenti climatici, ma il nemico è sempre lo stesso: l'umanità”, sottotitolo “Un Club poco raccomandabile”.
Nel mio libro “Il Cancro del Pianeta” (Armando Editore, Roma 2017, pp. 180-181) mi ero già
imbattuto nel Gaspari, cattolico intransigente e antiambientalista a tutto
campo, il quale ebbe l’infelice idea di scrivere un libro su “Le bugie degli
ambientalisti” prima dell’emanazione dell’enciclica “Laudato sì”, nella
quale papa Francesco confermava tutte le preoccupazioni degli ambientalisti
sullo stato di salute del pianeta.
Ma, tralasciando questo “incidente
di percorso” del Gaspari, nell’articolo sopra citato egli accusa Peccei in base
a due sue affermazioni:
“Fu lui a coniare il
termine ‘uomo cancro del pianeta’ e per questo venne spesso indicato come ‘profeta
di sventure’. Nel suo libro ‘Cento pagine per l'avvenire’ Peccei ha scritto
dell'umanità che ‘Si tratta di una proliferazione esponenziale che non si può
definire che cancerosa [....]’ e in un intervista a la Repubblica del 31 dicembre
1980, il fondatore del Club di Roma sentenzia ‘Gli uomini continuano a vivere
sul pianeta come i vermi sulla carogna: divorandola. Sanno che alla fine
moriranno, ma continuano a divorarla’”.
Poi l’ira del Gaspari si
estende a tutto il Club di Roma.
“Senza pudore, nel
report ‘The First Global Revolution’ del 1991 il club di Roma racconta: ‘Cercando
un nuovo nemico contro cui unirci, pensammo che l'inquinamento, la minaccia
dell'effetto serra, della scarsità d'acqua, delle carestie potessero bastare [...] Ma nel definirli i nostri nemici cademmo nella trappola di scambiare i sintomi
per il male. Sono tutti pericoli causati dall'intervento umano [...] Il vero
nemico, allora, è l'umanità stessa’”.
Per quanto riguarda la
primogenitura del termine “uomo cancro del pianeta” credo che la questione sia
aperta e attendo contributi da parte dei lettori. Per parte mia so che nel 1954
Alan Gregg ne parlò al meeting annuale dell’American Association for the
Advancement of Science (AAAS) e Emile Cioran nel suo libro “L’inconveniente
di essere nati” del 1973 scrisse: “Alberi massacrati. Sorgono case.
Facce, facce dappertutto. L’uomo si estende. L’uomo è il cancro della terra.”
Il testo di Peccei è del
1981; ignoro se avesse ipotizzato la metafora incriminata in scritti o discorsi
precedenti. Ma il problema non è la primogenitura della medesima, bensì in che
contesto, con quali accezioni e in che termini Peccei ne abbia parlato.
Per approfondire la
questione sono andato alla fonte, leggendo il libro citato (“Cento pagine
per l’avvenire”, del 1981, ristampato nel 2018 da Giunti Editore) e uno
precedente, “La qualità umana”, del 1976, ristampato nel 2014 da Lit Edizioni.
Non sono riuscito a
rintracciare l’intervista del 31 dicembre 1980 su Repubblica, in quanto l’archivio
digitale di questo giornale decorre dal 1984.
Dirò subito che debbo
ringraziare Enzo Pennetta e Antonio Gaspari per avermi fatto scoprire la grande
anima inquieta di Aurelio Peccei.
Essi certamente non hanno
letto i suoi scritti, ché altrimenti si sarebbero resi conto dello spessore umano
e culturale degli stessi e non li avrebbero liquidati spregiativamente come
hanno fatto.
Ma iniziamo la disamina da
quella che è stata l’accusa che mi ha indotto ad approfondire la questione, e
cioè l’aver descritto l’uomo come cellula tumorale maligna della biosfera.
Effettivamente a pag. 66
della nuova edizione di “Cento Pagine per l’Avvenire” vi è un paragrafo
dal titolo “Metastasi cancerosa della popolazione”. Al di là di questa
definizione, che si riferisce al fenomeno della sovrappopolazione, a mio avviso
vi sono altri punti in cui Peccei è stato maggiormente tentato da quella
folgorazione intellettuale secondo cui la nostra specie, lungi dal costituire
il punto più elevato del processo evolutivo, rappresenta un errore del
medesimo.
“È dunque in uno
slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura
produce la sua ultima grande specie, quella cui abbiamo dato il nome di homo
sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al
controllo della selezione immediata, oppure ammesso con la condizionale nel
grande flusso della vita?” (ivi, p. 56)
Come non ricordare su
questo tema quanto ebbero a scrivere Goethe, Dostoevskij e Nietzsche?
“Il piccolo dio del mondo (l’uomo, n.d.a.) […] vivrebbe un po’ meglio se tu (Dio, n.d.a.) non gli avessi dato il riflesso della luce celeste, ch’egli chiama
ragione e usa soltanto per essere più bestia di ogni bestia.” (J.W. Goethe,
Faust, Prima parte, Prologo in cielo)
“[…] aver coscienza di
troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Per i bisogni dell’uomo
sarebbe d’avanzo una comune coscienza umana, ossia la metà, la quarta parte di
quella che tocca a un uomo evoluto del nostro infelice diciannovesimo secolo
[…] sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la
coscienza stessa è una malattia.” (F. Dostoevskij, Ricordi dal
sottosuolo, Milano, Rizzoli, 1975, p. 25)
“Temo che gli animali
vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente
pericolosa il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante,
l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice.” (F.
Nietzsche, La gaia Scienza, aforisma 224)
Pennetta e Gaspari
intendono sbarazzarsi in modo sbrigativo e superficiale anche di questi tre
colossi del pensiero? O di fronte alle loro affermazioni sono disposti a riconsiderare
i propri giudizi? Ma non è questo l’argomento che intendo trattare.
Vorrei invece far notare
che le frasi di Peccei sopra riportate terminano con un punto di domanda e sono
seguite da una frase che, se non rappresenta una assoluzione con formula piena per
il genere umano, ne è quantomeno una assoluzione con formula dubitativa:
“Io propongo tuttavia
di dare provvisoriamente un giudizio a favore dell’uomo, tenendo conto che un
milione di anni è probabilmente un periodo troppo corto, in confronto ai cicli
dell’evoluzione, per trarre conclusioni definitive.” (A. Peccei, Cento
pagine per l’avvenire, cit. p. 56)
Più avanti Peccei torna a
parlare della possibile nocività di Homo sapiens, ma sempre all’interno di
frasi rette da verbi al condizionale e costruite in forma dubitativa.
“Già ci siamo chiesti
se l’Homo sapiens, rispetto al maestoso fluire dell’evoluzione, non
rappresenti, tutto considerato, un fenomeno deviante; se non sia un capriccio
della Natura, o un tentativo ambizioso andato male, un errore di fabbricazione
che gli aggiustamenti che assicurano il rinnovarsi della vita si incaricheranno
a tempo debito di eliminare o di rettificare in qualche modo.” (ivi, p. 66)
“Le nostre capacità
tecniche ci hanno forse posti su un piedistallo troppo alto? Siamo per caso una
specie di geni […] O al contrario […] non ci siamo forse
trasformati in mostri […] che finiranno per restare vittime del loro
stesso malsano operare? Visto il caos formidabile che abbiamo creato, è
difficile difendere la tesi del genio. La tesi opposta […] non si
può invece escludere così facilmente. […] Questo carattere farebbe parte
del suo codice genetico [che] lo condannerebbe quindi a continuare la
sua epopea imperiale e sanguinosa […] l’uomo non avrebbe alcuna possibilità
di sfuggire al giogo della sua intelligenza unica, che gli dei o il caso hanno
tuttavia voluto cieca.” (ivi, pp. 80-81)
Frasi pesanti come
macigni, frammiste a tante altre che denotano l’eccezionale irrequietudine
intellettuale di Aurelio Peccei.
Ma sempre seguite da una
nota di speranza.
“Pur riconoscendo che
questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno
pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo.
La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.”
(ivi, p. 81
“È un apprendistato
difficile quello che ci aspetta […] reso ancor più arduo dal fatto che il tempo
gioca inesorabilmente contro di noi. Ma da qui a dire che l’essere umano è modellato
geneticamente in modo tale da non poter cambiare e che di conseguenza si
condanna da solo, il passo è grande. L’uomo può salvarsi; sta a noi trovare il
modo.” (ivi, p. 82)
E anche seguite dalla
consapevolezza delle difficoltà che ci aspettano:
“[…] l’umanità dovrà
compiere uno sforzo supremo, eroico, lottare psicologicamente contro se stessa.”
(ivi, p. 177)
Di questi sforzi supremi,
eroici, tutta la vita di Aurelio Peccei è costellata. Già mentre ricopriva
importanti incarichi in primarie aziende (dalla Fiat alla Olivetti, di cui fu
amministratore delegato) contribuì alla nascita di associazioni, fondazioni,
organizzazioni tutte rivolte ad accrescere nell’umanità la consapevolezza della
necessità di un cambiamento radicale di direzione. Leggendo i libri citati ci
si può rendere conto di quanto vasta e multiforme sia stata l’opera di Peccei
in tal senso. “La Qualità Umana”, in particolare, è una sorta di
autobiografia.
Al termine della sua
attività lavorativa “ufficiale” poté dedicarsi a tempo pieno a questa missione,
il cui esito principale fu la nascita del Club di Roma, con la pubblicazione del
primo storico rapporto su “I Limiti dello Sviluppo” e di quelli editi
negli anni successivi.
In questa enorme mole di
attività si può peraltro intravvedere il dilemma che per tutta la vita deve
aver assillato l’animo di questo grande uomo.
Egli fu dirigente
industriale, apprezzò la serietà e l’efficienza delle più qualificate imprese
private, soprattutto se poste a confronto con l’inefficienza di tanta
amministrazione pubblica. Deprecò il fatto che il governo del mondo fosse
frantumato in un numero eccessivo di nazioni ed auspicò un nuovo ordine
mondiale basato su autorità sovranazionali in grado di aiutare il genere umano
a superare le difficoltà economiche e produttive sempre più diffuse.
Avrebbe voluto che amministratori
dotati di un’efficienza di tipo “privatistico” governassero il pianeta in modo
da sanare tutte le storture esistenti. A pag. 187 di “Cento Pagine per l’Avvenire”
fornisce una serie di esempi: la conservazione dell’ambiente; la sradicazione
della fame e della malnutrizione, la realizzazione di valide politiche
multinazionali dell’energia e di pianificazioni planetarie intersettoriali.
Ma certamente non gli
sfuggiva il fatto che questi interventi migliorativi della condizione umana
avrebbero comportato, se realizzati, un aumento dei consumi e una ulteriore
erosione delle risorse già abbondantemente saccheggiate.
Per tale motivo pose
vigorosamente l’accento sulla necessità di ridurre drasticamente la pressione
demografica, tema ampiamente ripreso nel Rapporto su “I Limiti dello
Sviluppo”.
Auspicò una
riconciliazione dell’essere umano con l’ambiente: “A mio giudizio il vero
fine dell’avventura umana è di arrivare a creare un mondo in cui le migliori
qualità umane possano svilupparsi appieno, in un clima di comprensione
reciproca e di simbiosi con la Natura.” (ivi, p. 210, da notare l’uso
costante della N maiuscola per il sostantivo natura).
Accanto a questo
encomiabile auspicio considerò sempre centrale il ruolo dell’uomo nella
biosfera, e quindi rimase saldamente antropocentrico.
L’uomo deve cambiare per
poter rimanere al centro della ribalta: “Un modo di pensare fondamentalmente
nuovo è indispensabile. Per salvare l’uomo, esso deve trasformarlo, metterlo in
condizione di far fronte agli imperativi del nostro tempo […] solo un nuovo
umanesimo può compiere il quasi miracolo della rinascita spirituale dell’uomo.”
(ivi, pp. 218-219)
Se l’uomo può trasformarsi
-pur con difficoltà- in senso positivo, non può essere assimilato a una cellula
maligna della biosfera, e Peccei non può essere ascritto alla schiera dei
precursori del Cancrismo.
Cionondimeno egli prese
attentamente in considerazione l’idea del nostro intelletto come causa dello
squilibrio del mondo naturale. I brani qui riportati sono del 1981, e gli anni ’80
dello scorso secolo sono indicati in più di un passaggio come decisivi ai fini
del cambiamento di rotta.
Sarebbe interessante sapere
se Peccei a quarant’anni di distanza avrebbe mutato la sua opinione sulle
possibilità di trasformazione dell’essere umano, tenuto conto che in tale lasso
di tempo nessuna modifica migliorativa è intervenuta, ma anzi la distruzione
della Natura è ampiamente proseguita.
Ciò ovviamente non si
potrà mai sapere, essendo il nostro autore morto nel 1984.
Ma un interessante
parallelo può essere fatto con quanto dichiarato nel 2012 alla rivista Format da
Dennis Meadows, il coordinatore del Gruppo di Lavoro del MIT che redasse nel
1972 -su incarico del Club di Roma- il rapporto su “I Limiti dello Sviluppo”.
Ecco alcuni passi di
quella intervista dal titolo significativo: “Non possiamo più fare niente”:
“MEADOWS: Supponiamo di
avere il cancro e che questo cancro causi febbre, mal di testa ed altri dolori.
Non sono questi il problema reale, è il cancro il problema! Comunque, proviamo
a curarne i sintomi. Nessuno spera di sconfiggere il cancro con quelle cure. I
fenomeni come il cambiamento climatico o le carestie sono semplicemente sintomi
della malattia di questo pianeta, il che ci riporta inevitabilmente alla fine
della crescita.
FORMAT: Il cancro come
metafora della crescita incontrollata?
MEADOWS: Sì. Le cellule
sane ad un certo punto smettono di crescere. Le cellule cancerose proliferano
finché non uccidono l’organismo. La popolazione e la crescita economica si
comportano nello stesso modo.”
Anche Peccei si sarebbe
convertito ad una siffatta teoria? La sua vicinanza con Meadows è fuori
discussione e in questi ultimi quarant’anni non si è realizzata alcuna delle
aspettative “salvifiche” ipotizzate dal Club di Roma. L’Impero dell’uomo
(termine più volte usato da Peccei) sta sprofondando sempre più in basso (a
questo tema è dedicato il mio libro di prossima pubblicazione “L’Impero del
Cancro del Pianeta”).
L’avventura umana di
Peccei mi ricorda quella di un altro grande visionario, il già citato Alan
Gregg (1890 – 1957). Costui operò nella Fondazione Rockefeller con incarichi di
grande responsabilità, fino a ricoprirne la carica di vice-presidente. Nel
corso della sua vita portò aiuti a tutte le popolazioni bisognose, salvo poi, in
tarda età, ipotizzare che l’essere umano devasti la biosfera come le cellule
tumorali distruggono i tessuti sani dell’ammalato di cancro. E, in occasione del
convegno su “I problemi della popolazione” tenutosi a Berkeley, in
California, il 28 dicembre 1954, ebbe anche a dire: “Le crescite cancerose
richiedono nutrimento; ma, per quanto ne so, non sono mai state curate
dandoglielo”, smentendo così il senso di tutta l’attività da lui svolta nel
corso della sua vita. (Il testo completo della relazione è consultabile nel blog de Il Cancro del Pianeta).
Peccei non fece mai una simile
ritrattazione e continuò sempre a coltivare la speranza del cambiamento. Rimane
il dubbio di come avrebbe potuto evolvere il suo pensiero alla luce di quanto
accaduto (o meglio di quanto non accaduto) nei decenni successivi alla
sua morte.
Sono completamente d'accordo.
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